Una delle tante particolarità dello sci alpino sta nella sua preparazione fisica e atletica, che per buona parte si svolge lontano dalle piste. Di conseguenza, l’attenzione ai dettagli è fondamentale, perché se una volta messi gli sci ai piedi qualcosa non dovesse funzionare sarebbe molto difficile rimettere le cose a posto. Lo ha raccontato a Gazzetta Active Matteo Artina, preparatore atletico di Sofia Goggia e non solo: tra gli altri, per restare nello sci, segue Mattia Casse; ha inoltre lavorato con Michela Moioli nel quadriennio olimpico 2014-2018 culminato con la medaglia d’oro olimpica nello Snowboardcross. Segue la Nazionale Italiana di Snowboard, di cui preme ricordare il doppio successo di Maurizio Bormolini che quest’anno ha riportato in Italia la Coppa del Mondo di Slalom Gigante e la Coppa Overall. Artina sarà tra gli ospiti dell’11° convegno del Centro Ricerche Mapei Sport Allenamento, Recupero e Performance: nuovi approcci metodologici di lunedì 24 marzo a Lomazzo (provincia di Como), dove parlerà proprio di prerequisiti, preparazione fisica e riatletizzazione nello sci alpino.
Quando comincia la preparazione fisica di uno sciatore?
“La preparazione atletica è una delle cose che rende lo sci uno sport anomalo, perché di fatto è un argomento ‘fuori stagione’. L’annata dello sciatore è divisa in un blocco di sei mesi in cui scia pochissimo e un altro in cui invece deve sciare ogni qual volta se ne presenta la possibilità. In questo contesto la preparazione atletica di uno sciatore assume le sembianze di una ‘scommessa’: un percorso lungo e ricco di dettagli, alla fine del quale si sale sugli sci. Se qualcosa nel metodo non ha funzionato, a novembre è troppo tardi per correggere il tiro. Lì si inizia con le gare, bisogna tirare le somme. Si continua un programma di mantenimento ma non si può creare un percorso di vero e proprio cambiamento. La preparazione atletica vive di questo dualismo, con un volume di lavoro gigantesco quasi completamente sganciato dallo sci ma che deve essere mirato a quello”.
Quindi, fondamentalmente, tutto quello che vediamo sulle piste è il frutto di mesi e mesi di lavoro fin dall’estate?
“In linea generale sì, il lavoro è prettamente fisico. Saltuariamente si organizzano delle uscite su neve, ma logisticamente è abbastanza complesso sia per motivi di distanza sia perché tanti giorni in quota creano una serie di reazioni per le quali al termine della sessione non si è così pimpanti e questo può inficiare la preparazione atletica. Solitamente gli atleti di alto livello a settembre vanno a sciare in Sudamerica, soprattutto in Argentina. Questa fase di circa un mese vede sovrapporsi lavoro fisico e sci, poi ancora lavoro fisico per un mese circa e poi dopo la metà di ottobre il famoso Circo Bianco comincia”.
Quali sono i lavori che si svolgono durante la preparazione a una stagione di sci alpino?
“Possiamo dividerli principalmente in tre macro-categorie. La prima riguarda lo sviluppo fisico, con lavori che riguardano forza, agilità e potenza: si lavora spesso con i bilancieri e con i pesi, ma anche con i salti, gli ostacoli, tutto ciò che riguarda la potenza e la forza esplosiva. La seconda riguarda la resistenza, solitamente con la corsa, ma da qualche anno si usano anche le biciclette. In generale la corsa finalizzata allo sviluppo della resistenza è molto utilizzata. La terza riguarda quel gigantesco mondo della ‘pre-habilitation’, un corollario enorme di proposte di lavoro ad alta e bassa intensità in cui si svolgono tutti i programmi di prevenzione, che sono fondamentali”.
Quanto è importante la prevenzione nella preparazione atletica? In cosa consiste?
“Sono quei programmi che permettono uno sviluppo fisico che consente allo sciatore di non avere mal di schiena, dolori alle ginocchia, alle caviglie, durante la stagione. Immaginiamo uno sciatore preparatissimo dal punto fisico ma che non può permettersi più di 7 giorni al mese sugli sci perché altrimenti ha problemi fisici. Non riuscirebbe a performare. Sono spesso esercizi legati alla mobilità articolare: alcuni esercizi possono sembrare simili allo yoga, si lavora tanto sulla qualità del movimento delle anche per prevenire il mal di schiena, si rinforza il corsetto addominale proprio per avere una struttura protettiva più concreta”.
Un altro tema che affronterà al convegno del 24 marzo è quello della riatletizzazione. In cosa consiste?
“Con Mattia Casse ho iniziato a lavorare proprio in seguito al suo infortunio al piatto tibiale, seguendone la riatletizzazione, per fare un esempio. La riatletizzazione fondamentalmente è l’anello di congiunzione che c’è tra la riabilitazione – che è responsabilità principalmente del fisioterapista – e il momento in cui l’atleta rientra nella sua condizione di allenamento naturale, il cosiddetto ‘return to play’. Ad esempio, in uno sport di squadra, è il momento in cui il giocatore torna ad allenarsi con i compagni. Lo scopo della riatletizzazione è portare l’atleta dalla fine di un recupero specifico da un infortunio a uno stato di forma sostanzialmente paragonabile a quello dei compagni con cui gioca o – nel caso dello sci – degli avversari con cui gareggia. Ad esempio, un atleta che torna da un infortunio a un arto inferiore finisce il suo percorso riabilitativo quando il confronto tra la forza dell’arto infortunato e quello sano è identico, ma questo non vuol dire che la forza dei due arti sia quella di un atleta allenato: per cui ci ritroviamo in una condizione in cui il recupero è completo ma la forma fisica dell’atleta è scarsa. Qui entra in gioco la riatletizzazione. Prendiamo come esempio un corridore: quando ricomincia a correre il suo infortunio si considera superato, ma ha bisogno della riatletizzazione per tornare a fare degli sprint, per ritrovare gli stessi livelli di resistenza dei colleghi con cui gareggia, per ripristinare la forma fisica specifica”.
Lei ha seguito atlete e atleti reduci da infortuni importanti come Sofia Goggia, Michela Moioli, Mattia Casse, Maurizio Bormolini…
“Per fare degli esempi, con Maurizio Bormolini, il lavoro è partito proprio da una rottura del legamento crociato anteriore. Ha fatto un percorso che lo ha portato a recuperare e quando si parte da un infortunio bisogna davvero ricominciare da zero, così come è stato per Mattia Casse e per Sofia Goggia. Nel suo caso, poi, l’infortunio alla tibia e al malleolo è stato ancora più complicato, perché dopo la prima operazione c’è stata anche una rimozione delle piastre, obbligandoci ad un doppio percorso: il primo dopo l’apposizione delle piastre e poi una seconda ripresa dopo la pausa per la loro rimozione”.
L’iscrizione al convegno del Centro Ricerche Mapei Sport è gratuita ma obbligatoria: basta mandare un’email con il proprio nominativo all’indirizzo segreteria@mapeisport.it.