Dopo il dottor Mondazzi, La Gazzetta dello Sport ha intervistato un altro dei relatori che interverrà al Convegno del Centro Ricerche Mapei Sport (per il quale vi ricordiamo che l’iscrizione è gratuita ma obbligatoria scrivendo una mail con il proprio nominativo a segreteria@mapeisport.it). Ecco l’articolo pubblicato ieri su gazzetta.it:
Se si parla solamente di “forza”, soprattutto in uno sport come il ciclismo, il rischio è che il concetto sia troppo generico. Esistono infatti diversi tipi di forza, diversi tipi di allenamenti e diversi approcci anche in base alle caratteristiche del corridore. Allenare la forza significa quindi prendere in considerazione tantissimi fattori, come spiega il dottor Nicola Maffiuletti, ricercatore, direttore di un laboratorio di ricerca a Zurigo e consulente scientifico del team di ciclismo Lidl-Trek, che sarà ospite all’11° convegno del Centro Ricerche Mapei Sport Allenamento, Recupero e Performance: nuovi approcci metodologici di lunedì 24 marzo a Lomazzo (provincia di Como).
Cosa significa allenare la forza nel ciclismo? Su quali aspetti – della pedalata, del movimento, dello scatto – agisce il lavoro sulla forza?
“Esistono varie espressioni di forza. La forza massimale, quella che un muscolo può generare una volta sola; la forza resistente, quella che un muscolo può mantenere durante varie contrazioni; infine forza esplosiva, quanto rapidamente un muscolo riesce a produrre forza. Dagli anni ’80, grazie anche a Mapei Sport e al dottor Aldo Sassi, si allena la forza resistente: in bicicletta si facevano delle salite chiamante SFR (Salite di Forza Resistenteza), delle salitelle al 6/8% sulle quali si eseguivano ripetute di 2 o 3 minuti con cadenze abbastanza basse, sulle 40 pedalate al minuto. Negli ultimi anni poi ci sono state diverse evoluzioni, che hanno portato alla formazione di tre diverse scuole“.
Di che cosa si tratta?
“Dal 2010 si è cominciato a parlare della possibilità di lavorare maggiormente sulla forza massimale ed esplosiva. Sono stati fatti degli studi su dei corridori, soprattutto nei Paesi scandinavi, nei quali si è scoperto che gli allenamenti di forza massimale con carichi elevati fuori dalla bicicletta, quindi in palestra e soprattutto in modalità squat, con carichi pesanti: parliamo del 70-80% della forza massimale, quindi se un ciclista riesce a fare 100 kg di squat si allena con 70-80 kg, un carico importante quindi. Si tratta della cosiddetta ‘prima scuola‘, di matrice scandinava. Questi allenamenti hanno portato dei vantaggi sull’economia del gesto: ovvero quanto ossigeno si consuma per una data distanza, e aumentava non solo la potenza su sforzi brevi ma anche la performance su sforzi di circa 30 minuti, con un vantaggio – seppur ridotto, sotto il 5% – soprattutto a cronometro“.
Come si è ulteriormente evoluto l’allenamento della forza?
“Si è cominciato a pensare che – decomponendo la pedalata – più rapidamente si realizza la spinta con i muscoli estensori degli arti inferiori, più tempo si avrà all’interno del ciclo di pedalata per recuperare. Così è nata la ‘seconda scuola‘, anche grazie all’avvento di tecnologie che permettevano di controllare il carico in palestra: in questo modo si può controllare la velocità del carico, ad esempio quanto velocemente si sposta un bilanciere dal basso verso l’alto in uno squat. I carichi sono meno pesanti, circa il 60% della forza massimale, ma si agisce soprattutto nella fase di spinta, con l’idea trasferire questo movimento sulla pedalata: più veloce è la spinta, più lunga sarà la fase di recupero per tornare col piede nella stessa posizione di spinta. Il cosiddetto VBT (Velocity Based Training) che ormai è diventato – anche troppo – una moda, fa parte della ‘seconda scuola’. A questa si è aggiunta una ‘terza scuola‘ spagnola, che ha cominciato a pubblicare degli studi riguardanti l’allenamento della forza in bicicletta, senza l’utilizzo dei pesi: si tratta di allenamenti simili alle SFR ma più corti. Solo 7 cicli di pedalata con rapporti molto duri e partendo da fermi, raggiungendo delle forze molto elevate nelle prime ripetute: questi studi hanno avuto un impatto perché spiegano che effettuare questo lavoro in bicicletta ha più o meno gli stessi effetti a livello muscolare e di performance del lavoro in palestra con carichi pesanti”.
Quale tipo di allenamento consiglierebbe a un amatore?
“Dev’essere il buon senso a spingere le persone a decidere in modo individuale quale tipo di allenamento eseguire, sempre considerando che tra amatori e professionisti c’è una grandissima differenza. In linea di massima, tenderei a consigliare agli amatori gli allenamenti della prima e seconda scuola, perché gli allenamenti della forza hanno dei vantaggi che vanno al di là della performance, soprattutto superati i 40 anni quando si comincia a perdere un po’ di forza, ed è importante considerando che parliamo di persone che non vivono solo di bicicletta. Ad esempio, la forza esplosiva è entrata a far parte in generale degli allenamenti delle persone anziane, poiché permette di contrarre più rapidamente i muscoli, ad esempio per evitare una caduta”.
Per quanto riguarda i professionisti, parliamo di uno sport in cui gli atleti hanno caratteristiche molto diverse tra loro: allenare uno scalatore come Ciccone non è come allenare un velocista alla Milan, che a sua volta è diverso da un Pedersen, un corridore più particolare. Come si differenziano i lavori?
“A livello professionistico non tutti i ciclisti utilizzano l’allenamento di forza, inteso come quelli descritti precedentemente. Quasi tutti utilizzano il ‘core’, preparazione o mobilizzazione, con esercizi un po’ più statici a livello dei muscoli addominali e lombari per avere una bella posizione sulla bici e per non stancarsi troppo in tante ore di lavoro in sella. Uno scalatore, in teoria, ha molto meno bisogno di allenare la forza massimale o esplosiva rispetto a uno sprinter, che teoricamente ne avrebbe necessità, poi che lo faccia o no è una scelta del singolo e dell’allenatore. Chiaramente le esigenze sono diverse a seconda del profilo: in questo senso è giusto citare Pedersen che non è uno sprinter puro ma ha bisogno di questo tipo di forza ed esplosività, soprattutto dopo tante ore di bicicletta”.
Come cambia il proprio corpo quando si ha un infortunio e si è costretti a stare tanto tempo lontani dalla bici? Come interferisce ciò sulla forza?
“Il cambiamento avviene soprattutto a livello neuromuscolare, anche se dipende ovviamente dal tipo di infortunio, ad esempio se una persona è completamente immobilizzata a causa di una frattura o se invece ha una tendinopatia per la quale deve “solo” ridurre l’attività. In ogni caso, comunque, si fa fatica ad attivare i muscoli nel modo in cui vorremmo: una settimana dopo l’infortunio si perde già il 10% della capacità di attivare i muscoli a livello massimale. Dopo circa 15 giorni in cui si usano meno i muscoli subentra l’atrofia muscolare, la riduzione di massa muscolare. Tutto è legato a quanto dura il periodo di disuso”.
Come si può recuperare?
“Ci sono tante possibilità. Pensiamo a una frattura, una tendinopatia, un crociato: anni fa si optava per l’immobilizzazione, oggi invece si ha un approccio diverso con modalità che non caricano troppo l’articolazione. Ad esempio l’elettrostimolazione muscolare, che non ha un grande carico articolare ed è una modalità utile. Si utilizza anche il Blood Flow Restriction Training: si ‘blocca’ il ritorno venoso come se stessimo misurando la pressione e si crea un’intensità di contrazione molto più elevata a livello metabolico. Camminare in questo modo è un po’ come fare già degli squat a bassa intensità. Oppure, una delle ultime novità riguarda l’allenamento con il calore: si scalda l’articolazione o il muscolo infortunato a 30-40 gradi in modo che anche uno sforzo in realtà blando risulti più intenso. Un altro stratagemma riguarda l’allenamento dell’arto opposto a quello infortunato per ottenere un effetto incrociato, oppure allenandosi con l’immaginazione motoria. Esistono tantissimi metodi, utili sia a livello amatoriale che professionistico”.