CIAO PRESIDENTE. L’ARCITALIANO CHE CI MANCHERA’ E CHE FORSE HA FATTO SBAGLIARE ANCHE “LUI”
Nessuno a questo mondo è insostituibile, i cimiteri sono pieni di gente insostituibile. Con un minimo sindacale di saggezza, questo lo si impara, nell’arco della vita. Ma si impara anche che quando se ne va una bella persona, il mondo si ritrova comunque un po’ più povero e un po’ più arido. E’ questo il caso, è questo il momento: Giorgio Squinzi non c’è più, e tutti quanti, in Italia, non possono non avvertire un autentico vuoto. Dico proprio così perché intendo proprio così: in tutta Italia. Non solo nel ciclismo o a Sassuolo. Se c’è una cosa che mi fa tristezza, in queste ore, sono i coccodrilli in cui si ricorda Squinzi come uomo di ciclismo e uomo di calcio. E’ evidente: anche questo ha fatto, nella sua vita. Ma con la mano sinistra, in fondo. Per pura passione e per puro divertimento. La verità vera però è molto più alta e molto più nobile: Giorgio Squinzi è riuscito a essere uomo in senso stretto e in senso totale, ovunque e comunque si sia trovato a operare. Nel tempo libero, riuscendo a ritagliarsi le sue oasi sportive e musicali, ma prima ancora nella realizzazione di se stesso, in famiglia e in azienda.
E’ questo che l’Italia, tutti noi, adesso dovremmo piangere e rimpiangere: il vuoto lasciato da una persona come non ce ne sono più, o in numero sempre più scarso e decrescente. La persona che mette assieme 83 aziende sparse nel mondo, quasi diecimila dipendenti, ma che non smarrisce mai il sentiero di casa e le cose buone della casa. La grandezza e la complessità degli affari, le sfide del mercato e del lavoro, senza mai dimenticare la grandezza e la centralità del domestico e del familiare. Intimo e pubblico con la stessa impronta marcata e lo stesso codice morale.
Non c’è più, ci viene a mancare nella casella vuota, il testimonial imperturbabile di un certo Made in Italy, che porta le proprie abilità in tutti i continenti, senza soggezioni e senza complessi di inferiorità, ma mai e poi mai si sognerebbe di rinnegare le proprie origini e di recidere le proprie radici, trasferendosi con armi e bagagli. Squinzi era uomo di mondo, ma essenzialmente e fermamente italiano. Ha voluto rimanerlo sempre, come tanti altri di noi, anche quando legioni di cialtroni della nostra stessa nazionalità suscitano indefessi l’irresistibile tentazione della fuga. Gli Squinzi non sono beoti, comprendono bene i limiti e i difetti di questa terra, ma ancora più fermamente decidono di restarci, per provare in qualche modo a cambiarla. A farla crescere, una volta per tutte.
Innegabilmente, è un’Italia sempre più affaticata e sempre più esasperata. Ma è un’Italia che ancora, cocciutamente, investe gli utili in azienda, anziché ingrassare i conti cifrati alle Cayman o aggiungere uno yacht davanti al Billionaire. Che invita gli operai al pranzo di Natale, non le ballerine alle cenette in Costa Azzurra. E’ un’Italia che sa godersi ancora le caldarroste allo stadio, o la salsicciata sul Pordoi, magari il giorno dopo un consiglio d’amministrazione con investimenti miliardari. E’ l’Italia di una borghesia produttiva e orgogliosa che ricorda e tramanda valori alti, così ben espressi da Thomas Mann nei Buddenbrook, in quel caso parlando della religione imprenditoriale in epoca ottocentesca.
Diciamoci la verità, fuori dal tumulto emozionale: tutti, anche quelli che di Squinzi non hanno amato o non hanno capito il copyright, oggi non possono negare che l’uomo fosse davvero così. La sua sobrietà, la sua semplicità, il suo coraggio, la sua grinta, la sua placida ironia. Qualcuno che senza alcun dubbio, tra inevitabili difetti e immancabili errori umani, ha comunque fatto del bene a tanta gente. E al suo intero Paese.
Personalmente, salutandolo con sincera malinconia, non voglio mancargli di rispetto raccontando il mio Squinzi. Se c’è una cosa che non sopporto, quando muore qualcuno, è che la gente usi lo scomparso per parlare in fondo di sé. Quella volta che mi ha telefonato, quella volta che mi ha detto la tal cosa, quella volta che mi ha fatto commuovere, quella volta che. Ciascuno ha il suo pezzo di cuore infranto, nelle ore del lutto. Ciascuno ha il suo album personale. Istintivamente, a me preme conservarmelo e godermelo in privato. E tanto deve bastare e basta.
Fuori dal personale, una cosa invece voglio aggiungerla. Adesso che la storia umana di Squinzi ha messo il punto, mi diverte pensarlo al cospetto del Giudice supremo, il Giusto più giusto dalla teoria implacabile, quella piuttosto feroce, è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli. Ecco, mi piace immaginare che persino Lui, davanti a questo ricco così strano, adesso si gratti dolcemente la folta barba, gli sorrida, lo accarezzi, e da vero amico lo accolga con divina soddisfazione, pronunciando parole nuove: benvenuto caro Giorgio, come vedi anch’io posso sbagliare.
di Cristiano Gatti per www.tuttobiciweb.it